
Recensione da Venezia: con Frankenstein, Guillermo del Toro realizza un mondo intricato e un adattamento dal ritmo volutamente sbilanciato.
Nel campo accademico piuttosto di nicchia degli studi sul mostro, la concezione comune della mostruosità è molto simile a quella della queerness: essendo “diverso”, un mostro destabilizza le nozioni storiche di normalità e normatività, mettendo a nudo quanto fossero finte in primo luogo. Nel caso di Victor Frankenstein e della sua creazione, secondo il romanzo eponimo di Mary Shelley, questa relazione definitoria non potrebbe essere più ovvia. Creatore e creatura formano un tutto inseparabile, facendo emergere un’interdipendenza nel modo in cui descriviamo l’umanità: sempre in opposizione al suo “altro”. Quando tali motivi dominano la filmografia di Guillermo del Toro, da Cronos a La forma dell’acqua, vincitore del Leone d’Oro e dell’Oscar per il miglior film, la sua attesissima adattazione di Frankenstein non sorprende. Un deliziosamente pestilente Oscar Isaac interpreta lo scienziato pazzo Victor Frankenstein in una forma quasi irriconoscibile all’inizio del film, con barba e capelli incolti che gli pendono sul viso come stalattiti di ghiaccio al Polo Nord.
Lì, un capitano danese (Lars Mikkelsen) di una nave reale si impegna a proteggere lo straniero aspro con una gamba protesica dopo averlo salvato dalla presa di una creatura grande e feroce: il mostro (Jacob Elordi), che somiglia a un umano avvolto in pellicce, ma le cui dita ossute e la capacità di sopravvivere a tutti i proiettili sparati contro di lui suggeriscono tutt’altro. Si svolge una modesta scena di battaglia in cui i danesi perdono sei uomini per mano del mostro, ma è Victor che il mostro vuole. Così ha inizio la storia (o dovremmo dire una storia) del dottor Victor Frankenstein che funge da primo capitolo del film, raccontata in un episodio retrospettivo di un’ora.
Molto tempo è dedicato all’infanzia di Victor––al padre chirurgo severo e sadico, alla madre solare che morì dando alla luce un secondo figlio, e alla perdita inconciliabile che lo spinge a “espandere i ristretti limiti dell’accademia” e a giocare con la vita e la morte attraverso la scienza. All’inizio materia di scherno per l’accademia medica, Frankenstein riesce presto a conquistare un uomo ricco chiamato Harlander (Christoph Waltz) come suo mecenate: non è solo il futuro suocero del fratello minore di Victor, ma, cosa più importante, deve la sua fortuna alla produzione di armi. Una deviazione importante nello script di Del Toro è la cronologia degli eventi––mentre il romanzo di Mary Shelley è ambientato nel Settecento, il presente del film è il 1857. Coincidenza o meno, quell’anno segna l’inizio della Guerra di Riforma in Messico, anche se la trama del film resta interamente eurocentrica. In ogni caso, la promessa di Harlander di finanziamenti illimitati, di un laboratorio-castello e di quante più bacchette di argento puro si desideri comporta vincoli––finanziamenti militari che sostengono le innovazioni, una storia vecchia quanto il mondo.
Il fatto che Victor narri la sua storia permette facilmente che scivoli in stereotipi familiari, sia il genio incompreso, sia il figlio edipico che sogna di sostituire il padre in ogni modo possibile, sia l’amante geloso che soffre per il rifiuto. Quest’ultimo grazie alla fidanzata del fratello, Elizabeth (Mia Goth), la cui presenza enigmatica e le prese di posizione affascinano l’ancora frenetico Victor. A sua volta, le sue mancanze morali sia come uomo sia come scienziato portano il personaggio di Elizabeth a fuoco vivido, permettendo a Goth di esplorare le tensioni sotterranee di un ruolo che richiede pochissimo urlare. Inutile dirlo, conquista, abbaglia e incanta con la stessa facilità dei sontuosi blu e verdi dei suoi abiti romantici––velluto, seta dipinta a mano e tulle abbondano grazie all’eccellente lavoro della costumista Kate Hawley. Quando si tratta dei mondi cinematografici intricati di Del Toro, non ci si aspetta nulla di meno che l’eccezionale, quindi un plauso al design di produzione di Tamara Deverell è d’obbligo.
Nel secondo (e in parte sorprendente) capitolo del film, “La storia della creatura”, il mostro di Frankenstein riconquista la narrazione, riprendendo da dove il suo padrone aveva lasciato––una struttura valida e senza dubbio dotata di potenziale emancipatorio. Ma la miscela di dolore del lutto e di salutari realizzazioni offerta dall’atto finale non sembra del tutto meritata. Forse la colpa è tanto del ritmo quanto dei salti temporali, e del fatto che le due metà della storia non ottengono lo stesso spazio sullo schermo. Sì, il film si chiama Frankenstein, ma sembra che lui non meriti mai appieno il titolo di protagonista, specialmente perché Oscar Isaac riesce a offrire una performance così forte interpretando un uomo moralmente svuotato che ha volato troppo vicino al sole.
Si possono imporre alcune interpretazioni allegoriche su Victor e la creatura, sempre espresse come dicotomie––natura-cultura, passato-presente, genitore-figlio––ma ciò che risalta è il potere letterale della narrazione e chi ha il diritto di raccontarla. Il mostro di Frankenstein deve imparare a camminare, sentire e parlare in modo diverso dagli umani––forse in modo più libero, “più puro”, come suggerirebbe Elizabeth. Fatto salvo il sottotesto religioso, la nozione di perdono è cruciale nel film di Del Toro e forse lo rende il più ottimista tra i contendenti al Leone d’Oro di quest’anno.
Frankenstein ha fatto il suo debutto al Festival di Venezia e uscirà nelle sale il 17 ottobre e su Netflix il 7 novembre.
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