Recensione da Venezia: Duse di Pietro Marcello offre un tributo schietto a una leggendaria prima donna

Recensione da Venezia: Duse di Pietro Marcello offre un tributo schietto a una leggendaria prima donna

      Nel 1921, tre anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un treno partì dalla piccola cittadina di Aquileia nel nord-est d’Italia. Avvolto di bandiere e corone, trasportava la bara di un soldato non identificato verso la sua ultima dimora a Roma. Fu un viaggio lento e solenne. Lungo il percorso si radunarono folle per rendere omaggio: cittadini comuni, vedove e orfani guardarono i carri sfilare in un silenzio spettrale. Il viaggio è immortalato nel documentario del 1921 Gloria: Apoteosi del Soldato Ignoto, e frammenti di quel girato riemergono ovunque in Duse di Pietro Marcello, film che si interessa tanto a tracciare gli ultimi anni della protagonista, l’attrice italiana titolare, quanto a mappare il mondo tempestoso che lei attraversava. Questo approccio micro‑macro è da tempo il modus operandi di Marcello — lo stesso seguito in Martin Eden, che intrecciava le lotte personali e artistiche del protagonista con i mutamenti molto più ampi che interessavano il suo territorio. E sebbene Duse non raggiunga le vette di quel film, amplia comunque il progetto del regista di colmare la distanza tra passato e presente, verità e mito.

      Marcello è quel raro cineasta il cui cinema non considera “adesso” e “allora” come piani dicotomici, ma come esistenti sullo stesso continuum tempo‑spaziale. È in gran parte per questo che Martin Eden avoidò la qualità ingessata di molti altri drammi in costume. Nell’adattare il romanzo di Jack London del 1909, lui e il cosceneggiatore Maurizio Braucci sostituirono l’ambientazione originaria — l’Oakland di inizio secolo — con Napoli. Fu una mossa audace che ripagò magnificamente, non ultimo perché il viaggio risultava risolutamente sganciato dal tempo. Abbandoni anacronistici abbondavano: se i costumi suggerivano gli anni Trenta, qualche televisore sullo sfondo rimandava a decenni successivi, con ulteriori arredi e canzoni pop italiane a complicare il senso dell’epoca. Fondamentale in quella disorientante esperienza è sempre stata la gestione dei materiali d’archivio da parte di Marcello; come in tutti i suoi precedenti lungometraggi, Martin Eden non si limitava a includere qualche spezzone di vita dell’Italia dei primi del Novecento, ma li fondeva senza soluzione di continuità nella fotografia 16mm di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo, offuscando i segni temporali così come la linea tra clip preesistenti e materiale girato da Marcello stesso. Che il suo lavoro, nella sua forma più affascinante, coltivi una peculiare dislocazione è il motivo per cui il più lineare Duse appare come un’eccezione.

      Scritto da Marcello, Letizia Russo e Guido Silei, il film segue Eleonora Duse (Valeria Bruni Tedeschi) mentre ritorna a teatro dopo un’assenza di dodici anni. Forse la più grande attrice teatrale della sua generazione — tanto venerata da critici e pubblico da guadagnarsi il titolo di “La Divina” — il suo ritorno è un evento di portata straordinaria, e alla prima dell’opera di Ibsen in cui recita dopo la pausa assistono folle di aristocratici e politici (tra loro l’allora deputato Benito Mussolini). Non è il suo unico cameo; Marcello lega il secondo atto della donna sotto i riflettori alla stessa ascesa dell’Italia dalle ceneri della Prima Guerra Mondiale e al suo inesorabile scivolare verso il fascismo.

      C’è una continuità tematica nel modo in cui il potere corrode l’artista: Martin Eden tracciava la discesa del protagonista da idealista giovanile a icona letteraria agiata ma spiritualmente infranta, mentre Duse suggerisce una simile spirale discendente che affligge Eleonora e il suo compagno creativo e sentimentale, Gabriele D’Annunzio (Fausto Russo Alesi), mentre si lasciano sedurre dal regime mussoliniano per poi svegliarsi — troppo tardi — alla sua morsa metastatica sulla società e sulle arti. Ma Eleonora, una teatrante tornata a recitare nel 1921, offre a Marcello l’opportunità di sondare altre ansie. Nessuno dubita mai delle sue squisite capacità. Meno chiaro è perché insista a interpretare “i classici” dopo un evento sconvolgente come la Prima Guerra Mondiale, o perché rifiuti così strenuamente l’opportunità di lavorare nel nascente cinema. Il mondo sta cambiando, un nuovo medium è in ascesa, il tipo di teatro in cui Duse eccelleva sta diventando obsoleto.

      Queste tensioni Bruni Tedeschi le incarna con convinta intensità. Interpreta Eleonora come una via di mezzo tra una bambina dagli occhi spalancati e una diva rancorosa, pronta a sostenere autori più giovani salvo poi lasciarli quando i loro talenti non reggono il confronto con i suoi. Le basta il volto per trasmettere il carisma febbrile della Divina. La camera a mano di Marco Graziaplena la coglie per lo più in primi piani del volto, scelta che si sposa con la decisione di Marcello di non mostrarla al lavoro. Duse non è infatti interessato a fornirci prove tangibili del genio della sua eroina — la vediamo recitare solo per brevi istanti. Risparmiare a Bruni Tedeschi la ricostruzione delle performance della prima donna aiuta Duse a evitare alcune delle formule stucchevoli e inflazionate di molti biopic d’artista. Ma non spiega del tutto perché debba essere adorata da schiere di ammiratori: tutto ciò che resta è la prova mercuriale di Bruni Tedeschi, e questo da solo non giustifica l’agiografia.

      Più preoccupante è che Duse presenti poco della vertigine che rendeva il lavoro precedente di Marcello così trasportante. Anche qui il regista dissemina spezzoni d’archivio, ma i materiali d’epoca non aprono Duse nelle stesse modalità sconcertanti in cui aprivano Martin Eden. L’obiettivo di Marcello non è tanto l’offuscamento delle coordinate temporali quanto il confine tra fatto e finzione. Nulla lo esemplifica meglio di una scena tarda in cui D’Annunzio si rivolge a folle di fascisti da un balcone, con Marcello che sovrappone la voce di Russo Alesi a una registrazione del poeta reale che pronuncia lo stesso discorso nei primi anni Venti. È una scelta che si addice a una storia di artisti che trattavano il mondo come un’estensione dei palcoscenici che calcavano. Ma se è indubbio il disagio che nasce dal vedere cinema e storia collidere, il percorso complessivo è sorprendentemente lineare. Duse testimonia l’abilità di Marcello di trasformare i suoi fotogrammi in un tessuto poroso e respirante e di impiegare gli archivi per colmare il divario tra l’orrendo passato dell’Italia e i fantasmi che ancora lo infestano. Tuttavia, se il suo tributo tardivo a un’artista leggendaria è esente dalle qualità museali di altri drammi del genere, continua comunque a lasciare la protagonista e il suo mondo avvolti nel mistero.

      Duse ha avuto la prima al Festival del Cinema di Venezia 2025.

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