
Recensione del NYFF: Gavagai di Ulrich Köhler solleva interrogativi sulle tensioni nella realizzazione cinematografica
Il regista tedesco Ulrich Köhler, con Gavagai, tenta di giocare sul suo titolo, concentrandosi sull’idea del fraintendimento. Gavagai, una parola inventata resa popolare dal filosofo Willard Van Orman Quine, esamina la traduzione di una parola — o in questo film, la traduzione di una situazione — che può essere vista in modo diverso dai vari personaggi coinvolti. In questo caso la situazione è tra una guardia della sicurezza dell’hotel e il protagonista, sia fittizio sia reale del film, Nourou (Jean-Christophe Folly), un uomo di colore presente al Festival di Berlino come ospite d’onore.
Il regista si trova a lavorare su una meta-narrazione, seguendo la storia d’amore sul set e le tensioni tra i co-protagonisti durante le riprese e poi la première di una Medea aggiornata. Köhler, proprio come il titolo del suo film, non ha intenzione di spiegare il significato di questa storia. Si ispira alle tensioni razziali del mondo contemporaneo, esaminando la nostra incertezza morale collettiva.
Nourou siede di fronte alla sua co-protagonista bianca, Maja (Maren Eggert), mentre nel corso del film i due si studiano reciprocamente. Maja diventa protettiva nei confronti del suo ex-amante durante e dopo l’incidente di sicurezza, dando inizio a una serie di momenti di escalation tra loro. Ha abbastanza rabbia per entrambi. Maja non riesce a lasciar correre l’incidente; anzi, si fa missione di ottenere il licenziamento della guardia, con grande frustrazione del suo collega. Nourou vuole andare avanti, concentrarsi sulle possibilità della loro relazione, ma Maja è determinata in questa crociata.
Il film di Köhler è pieno di queste zone grigie morali, eppure il regista sembra interessato soltanto alla messa in scena. Non intende fornire al pubblico alcuna idea di ciò che sia “giusto” fare. Vuole mostrare allo spettatore una situazione e permettere a ciascuno di noi di rispondere. Saremmo pieni di furia giusta? Lasceremmo che Nourou la gestisca come preferisce? E quale ruolo giocano l’amore, o il desiderio, in una situazione di indecisione morale?
A suo merito, Folly è straordinario in questo ruolo centrale. Il suo volto resta impassibile per tutto il tempo, attraversando la vicenda con una disinvolta fluidità emotiva. Sì, mostra delusione con un sorriso che sfuma e gioia mostrando i denti, ma c’è uno stoicismo costante nel suo atteggiamento. Lo ha già vissuto prima sia con la guardia sia con Maja. Il suo amore per lei supera qualsiasi altro sentimento.
Gavagai rivolge la sua attenzione al film nel film, la rielaborazione di Medea ambientata in Senegal, con un finale molto più francese rispetto all’opera originale di Euripide. È un film realizzato da una donna bianca (che somiglia a molte autrici europee contemporanee) che chiede emozioni sfrenate alle sue star, offre briciole ai suoi comparse neri e risponde alle domande dei giornalisti con un curioso senso di diritto nel raccontare le storie che preferisce.
Il lungometraggio di Köhler contiene fili su fili di commento, avvolti in quattro lingue e in una narrazione meta. La sua riluttanza a fornire chiarezza per questi personaggi è al tempo stesso punto di forza e di debolezza. Attira lo spettatore, per poi non concedere sollievo; pone domande, solo per porle allo spettatore perché le risponda. A volte un film si dirige verso l’irrisolvibile. In Gavagai, la cattiva interpretazione in mezzo alla tensione sociale rimane il fulcro della storia, e Köhler non esplora nulla al di là delle questioni razziali e morali della società che ribollono costantemente in superficie.
Gavagai ha avuto la prima al New York Film Festival 2025.
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