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Il documentario Fendendo le rocce è la prova lampante dell’idioma «due passi avanti, uno indietro». Diretto da Sara Khaki e Mohammadreza Eyni, questo film racconta la storia di Sara Shahverdi, la prima consigliera eletta nel suo villaggio del nord-ovest dell’Iran. La seguiamo dalla sua campagna elettorale, alla sorprendente vittoria, fino alla sua lotta per operare cambiamenti nella comunità. Una cultura consolidata di norme dominate dagli uomini le si pone davanti e porta a profonde tensioni e conflitti. Persino membri della famiglia di Shahverdi diventano nemici, mettendo in dubbio la sua testardaggine e la sua volontà di reagire.
Qui si sviluppa una narrazione completa, montata con brio e ancorata a due alberi che Shahverdi piantò insieme al suo defunto padre molti anni fa. Lui l’aveva cresciuta per essere indipendente, un uomo progressista nato in un mondo patriarcale. Proprio come lei ritorna agli alberi per trovare conforto, così fa il film. Man mano che le sue battaglie si intensificano una volta al consiglio, ogni sollievo offerto dagli alberi assume un peso maggiore. Queste sequenze racchiudono le immagini più suggestive del film.
Shahverdi è una protagonista incredibile. Ex ostetrica e divorziata in una regione dove il divorzio è in gran parte stigmatizzato, questa donna forte va in moto, si veste come vuole e sfida l’autorità a ogni passo. Una delle scene più avvincenti del film ruota attorno alla richiesta di Shahverdi ai suoi fratelli di riscrivere un documento relativo all’eredità familiare affinché lei e le sue sorelle non vengano escluse. Non si lascerà negare questo diritto.
Ci sono più di una sequenza in cui viene affrontata da paesani uomini agitati che mettono direttamente in discussione la sua indipendenza e le sue scelte ostinate. Ci sono anche scene inquietanti di giovani donne aggredite fisicamente da uomini più anziani che dovrebbero essere i loro protettori. Spesso la macchina da presa è nascosta o oscurata, catturando il più possibile senza essere scoperta.
Nonostante tutti questi ostacoli, Fendendo le rocce, come la sua protagonista, è resiliente. Il film è in definitiva la somma di piccoli momenti potenti: Shahverdi che offre una casa a una giovane adolescente costretta a un secondo matrimonio combinato; che insegna a un piccolo gruppo di giovani donne a guidare la moto, con grande sdegno del villaggio; e che insiste per un preciso progetto del nuovo parco del villaggio contro le obiezioni di altri membri del consiglio. Quando le forze politiche cominciano a ostacolare i suoi progressi, lei resta salda nelle sue convinzioni. La sua identità di donna viene messa in discussione, così come le azioni all’interno della sua casa. A un certo punto, una spiegazione offerta da un altro paesano è brutale nella sua acquiescenza alla tradizione: «È quel che è».
Khaki ed Eyni hanno rischiato tutto per catturare queste immagini. La produzione è stata intermittente per sette anni, con numerose visite, e la dedizione si vede. Qui non c’è molto spazio per i fronzoli. Spesso nei documentari ci sono riprese di raccordo come elemento di transizione. Possono essere utili, ma più spesso che no risultano superflue. Fendendo le rocce non ne ha affatto. Si tratta di una narrazione essenziale, concentrata sulla sua protagonista con riprese più che sufficienti a sottolineare i momenti tragici offrendo al contempo un barlume di speranza nei volti delle giovani donne che Shahverdi ha chiaramente ispirato. La frase «representation matters» è diventata una sorta di battuta in certi angoli di internet. Peccato, perché la rappresentanza è importante.
Fendendo le rocce apre venerdì 21 novembre al Film Forum di New York.
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