Una recensione di "A Land Unknown": una poesia amara dell'esilio palestinese

Una recensione di "A Land Unknown": una poesia amara dell'esilio palestinese

      Nota: Questa recensione è stata originariamente pubblicata come parte della nostra copertura del Festival di Cannes 2024. A Land Unknown uscirà nelle sale il 11 luglio.

      L’tragico dilemma dei palestinesi e ciò a cui sono ora sottoposti merita di essere analizzato e smantellato, con diverse aree di dubbio consenso storico sottoposte a una nuova verifica; nel debutto in narrativa di Mahdi Fleifel, A Land Unknown, siamo esclusivamente al presente disorientante, dove raramente c’è tempo per pensare e riflettere, solo per agitarsi per la sopravvivenza.

      Lo stesso regista è cresciuto in un campo profughi palestinese in Libano, un background che si riflette nei personaggi principali del film, prima di trasferirsi in Danimarca e studiare nel Regno Unito; quindi, non ha mai vissuto un contatto diretto con l’occupazione israeliana. Sono seguiti documentari acclamati, tra cui I Signed the Petition, un cortometraggio di 10 minuti diventato semi-virale, riguardante le chiamate al boicottaggio del concerto dei Radiohead del 2017 a Tel Aviv. Come dimostra A Land Unknown, il passaggio alla finzione è abbastanza fluido, anche se sempre sostenuto dalle basi della ricerca; la narrazione, man mano che si sviluppa, diventa drammaticamente coinvolgente, ma l’insieme caotico degli eventi non mette mai in discussione la credibilità.

      Può sembrare semplicistico, ma gli sforzi di Fleifel (con la partecipazione anche del rinomato cineasta britannico Fyzal Boulifa e Jason McGolgan come co-scrittori) ci mettono nel bel mezzo delle scarpe di due rifugiati palestinesi archetipici, i cugini Chatila (Mahmood Bakri) e Reda (Aram Sabbah), mentre usano Atene come via di passaggio per stabilirsi infine in Germania (un dettaglio triste e profetico dato la risposta di quel paese alla guerra), dove sperano di aprire un caffè con delizie mediorientali tradizionali. A Land Unknown si collega indubbiamente alle narrazioni sui rifugiati viste sullo schermo negli ultimi dieci anni, tuttavia l’identità palestinese dei protagonisti crea un legame visivo particolarmente grave e urgente, incoraggiandoci a vedere questi giovani uomini come parte di un continuum definito dal costante rifiuto del riconoscimento civile e della dignità, e dall’idea di “casa”, il concetto più illusorio.

      Per essere ancora più schietti, il debutto di Fleifel assomiglia molto a Tori e Lokita, il recente film dei Dardennes, se fosse almeno convincente. C’è il trafficante/sciagurato Marwan (Monzer Reyahnah) che promette documenti di viaggio falsi, accettando pagamento a rate, ma per quanto si vanti di solidarietà (con la nota foto di Arafat in mostra nelle sue dimore, un uomo di stato di cui ora si discute meno), sta semplicemente approfittando di questi uomini disperati e riempiendo le sue tasche? Si creano una serie di nuove complicazioni e ostacoli: per dimostrare che i loro sforzi non sono vani e per fare del bene, Malik (Mohammad Alsurafa), un rifugiato giovane e risorsa, che se ne mantiene da solo, può essere scambiato per il figlio di Tatiana, amica romantica di Chatila, interpretata dall’attrice di Dogtooth e The Lobster Angeliki Papoulia. E l’angoscia esistenziale di Reda è evidente; uomo gay, si prostituisce in un parco locale per integrare i risparmi dei cugini, ma il denaro spesso finisce per finanziare la sua debilitante dipendenza dall'eroina. Questa vulnerabilità e diversità non conformista alimentano la tensione drammatica tra i uomini, in contrasto con il comportamento incoerente di Chatila nel mantenere i valori familiari (lo tradisce con Tatiana nel campo) e con il suo occasionalmente sessismo.

      Quando si manifesta una finestrella di fuga possibile, il comportamento e le azioni di Chatila e Reda diventano gradualmente intollerabili, eppure restano investimenti di solidarietà perché la loro disperazione e alienazione sono così palpabili. La sceneggiatura è anche nervosa e provocatoria nel contrapporre tra loro i diversi rifugiati con cui coabitano, in gran parte palestinesi e alcuni siriani: il coltello si gira di lato oltre che in avanti. Che Fleifel possa alludere alle tensioni settarie e democratiche all’interno dei territori palestinesi stessi solleva un’altra domanda difficile rivolta a noi.

      Ispirato dalla triste ondata dei buddy movie americani degli anni ’70, A Land Unknown riuscirà a conquistare il pubblico, evitando di essere troppo discorsivo, così da poter suscitare rabbia e pathos. Sono rimasto entusiasta al termine della proiezione, anche se in retrospettiva si è affievolito leggermente nella mia mente. Tuttavia, un cinema così attuale e di attualità rappresenta una benedizione, dove finalmente possiamo sentire il mondo esterno influenzare direttamente quello che accade sullo schermo.

      A Land Unknown ha debuttato al Festival di Cannes 2024.

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