Recensione del film – Springsteen: Salvami dal nulla (2025)
Springsteen: Deliver Me from Nowhere, 2025.
Scritto e diretto da Scott Cooper.
Con Jeremy Allen White, Jeremy Strong, Paul Walter Hauser, Stephen Graham, Odessa Young, David Krumholtz, Gaby Hoffmann, Harrison Gilbertson, Grace Gummer, Marc Maron, Matthew Pellicano Jr., Jayne Houdyshell, Jeff Adler, Jimmy Iovine, Chris Jaymes Bartley Booz, Craig Geraghty, Laura Sametz, Vienna Barrus, Vivienne Barrus e Arabella Olivia Clark.
SINOSSI:
Il viaggio di Bruce Springsteen nella creazione del suo album del 1982 Nebraska, nato mentre registrava Born in the USA con la E Street Band.
Prima che venisse infine pubblicato, Bruce Springsteen decise di accantonare una delle sue registrazioni più popolari, Born in the USA. Interpretato nel film di Scott Cooper Springsteen: Deliver Me from Nowhere da Jeremy Allen White, ciò è dovuto al fatto che «The Boss» (come tutti avrebbero iniziato a chiamarlo) era profondamente terrorizzato dalla prospettiva di diventare una celebrità a tutti gli effetti. Proveniente da una piccola città del New Jersey, voleva restare lì e ritirarsi dopo i tour per un precedente album di successo (che conteneva hit come Born to Run), vivendo con traumi non elaborati e una debilitante depressione a causa di un’infanzia infelice fatta di quotidiani litigi domestici tra i suoi genitori, con una vena di alcolismo da parte di suo padre Douglas (Stephen Graham).
Bruce Springsteen stava per diventare famoso in tutto il mondo. Non c’era bisogno di ripensamenti, ed era evidente a tutti, dagli addetti allo studio al suo fedele manager Jon Landau (Jeremy strong) e perfino a un addetto alle attrezzature a effetto comico (l’immancabile Paul Walter Hauser, che in qualche modo riflette in forma vicaria il ruolo di un fan che guarda questo biopic). Detto questo, Bruce Springsteen fece ogni possibile scelta per ritardare e forse persino prevenire questa inevitabilità.
Più interessato a confrontarsi con i suoi demoni e a trovare una modalità sonora più cupa, il musicista iniziò a trarre ispirazione da film altrettanto desolati come Badlands di Terrence Malick, dai suoi traumi personali, da questioni irrisolte con suo padre, da problemi con una conoscente superficiale che rapidamente si trasforma in una relazione più seria (Faye, interpretata da Odessa Young, che purtroppo qui ha poco da fare e ricopre esattamente il ruolo che ci si aspetta: una divorziata con un figlio che alla fine resta a pezzi dopo averle dato fiducia), il tutto rinunciando al suono rock ’n’ roll in favore di uno stile folk destinato a risultare divisivo.
E sebbene questa fosse una scelta creativa consapevole, appariva anche come una forma di assicurazione per evitare che la popolarità di Bruce esplodesse ulteriormente. A questo punto del 1982 era già abbastanza riconoscibile, il che gli consentì di ritirarsi alle sue origini in una piccola città. È anche lecito dire che in parte si trattava di staccare dalla vita da tournée nelle grandi città tanto quanto di rifugiarsi in un ambiente familiare con molto bagaglio personale non risolto, ma la paura della fama costituisce un’altra porzione significativa del biopic di Scott Cooper, che si basa sul libro di Warren Zanes.
Questa attenzione alla creazione di un album che sfida le aspettative del pubblico cercando al contempo un suono specifico, essenzialmente opposto alla sovrapproduzione in uno studio di registrazione, insistendo nel trasferire l’audio "nudo" da una cassetta al disco, è una dinamica interna benvenuta. Bruce è fermo sul fatto che questo album folk sarebbe stato spogliato nella produzione per concentrarsi sulla scrittura delle canzoni stesse, che porta con sé un senso di verità, mentre biopic di musicisti simili risultano forzati. A rafforzare questo contribuisce la straordinaria interpretazione di Jeremy Allen White, che offre una rappresentazione autentica della depressione e dell’insicurezza, evidenti in tutto il suo linguaggio corporeo. Anche nei momenti di complicità con Faye e suo figlio, sotto quei ricordi apparentemente felici si cela un pozzo di incertezza e dolore. Una scena finale tra lui e suo padre funge da crescendo emotivo commovente.
Tuttavia, poiché ogni personaggio secondario o sottotrama esiste solo per servire la creazione delle canzoni dell’album Nebraska, questi risultano penalizzati come persone e non adeguatamente sviluppati. Non c’è altro in questi personaggi oltre al valore superficiale, il che è naturalmente frustrante dato che il film tratta ancora, tecnicamente, i cliché dell’artista tormentato. Riesce molto meglio quando si limita a seguire il processo creativo di Bruce. Sembra inoltre mancare un intero terzo atto, con il film che salta casualmente avanti di 10 mesi invece di mostrare un percorso verso la guarigione mentale. A parte la scena già menzionata con suo padre, non c’è molta ricompensa emotiva, il che è leggermente frustrante poiché il film è già emotivamente distante per tutta la sua durata.
Springsteen: Deliver Me from Nowhere non raggiunge la grandezza per cui sembrava nato, ma l’interpretazione dolorosa di Jeremy Allen White lo eleva di una tacca sopra la mediocrità.
Valutazione Flickering Myth – Film: ★ ★ ★ / Movie: ★ ★ ★
Robert Kojder
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